di Tiziano Torresi
Cadevano le bombe come neve, il 19 luglio 1943, a San Lorenzo. Cadevano le ultime illusioni: Roma sfregiata dalla guerra era il segno che il regime fascista aveva i giorni contati. In quelle ore drammatiche e caotiche della storia italiana, nella quiete del monastero di Camaldoli, entrava nel vivo un convegno di teologi, intellettuali e professionisti cattolici indetto da tempo per riflettere sulla traduzione della dottrina cristiana nel concreto operare dell’uomo e della società, e per elaborare un testo di cultura sociale che potesse orientare l’impegno civile dei credenti. Un’altra vicenda, dunque. Un’altra storia. Che tuttavia alla storia grande e tragica di quei giorni e mesi fu profondamente legata.
Riflettere sul legame tra la storia italiana – dai primi segnali di crisi del regime fascista sino alla Liberazione – e la storia della redazione del volume Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli è indispensabile per chiarire il testo e il contesto del cosiddetto Codice di Camaldoli.
Su questo documento si è infatti ridestata, a partire dagli anni Ottanta, un’attenzione motivata più dall’interesse politico che da autentiche ragioni storiografiche, dall’esigenza di riprendere un discorso sui fondamenti morali dell’impegno civile, di recuperare il fervore delle origini del movimento democristiano ormai sopito, di risvegliare l’azione culturale dei cattolici. In questo modo, di anniversario in anniversario, si può senz’altro affermare che, abortito il dibattito auspicato dai suoi estensori, il Codice è stato dimenticato, riproposto in modo episodico, commemorato, rievocato e citato più che studiato, sino ad assumere un carattere quasi mitologico.
Per tornare dall’astrattezza dell’epica alla concretezza della storia è dunque necessario ripercorrere le tappe che dall’ispirazione portarono alla pubblicazione del Codice. Queste tappe non furono delle singolari coincidenze. Furono momenti nei quali la vocazione di cristiani e la coscienza di cittadini hanno saputo tradurre la lezione della storia in intuizioni e in scelte importanti per il futuro dell’Italia.
L’obiettivo del Convegno di Camaldoli [del luglio 1943], pur inserito nella tradizione degli studi sociali cattolici, assunse infatti un obiettivo ambizioso: il rilancio della questione sociale radicata nel contesto storico, politico ed economico di un’Italia da ricostruire sotto il profilo materiale, morale e istituzionale. Certo occorreva aggiornarsi e confrontarsi con i nuovi insegnamenti del magistero, calando nella realtà i recenti pronunciamenti di Pio XII. Certo il codice costituisce così effettivamente il punto di contatto fra la dottrina e la vita concreta della società, ciò che è indispensabile sia per dare una guida sicura a chi è impegnato nell’azione, sia anche per far progredire e precisare la dottrina. Certo, come testimoniò Pasquale Saraceno, se il Codice di Malines non fosse esistito, il dibattito sulla natura di simili documenti si sarebbe svolto con più rigore e forse la questione di redigere un testo non sarebbe neppure sorta.
Fu tuttavia la coincidenza con i tumultuosi eventi dell’estate 1943 e dei mesi che seguirono a imporre ai redattori un cambiamento di prospettiva. Non sarebbe più bastato fare il punto, fornire uno schema di sintesi, aggiornare un consuntivo della dottrina sociale. Non serviva un testo chiuso, ma aperto sul futuro. Serviva una dichiarazione di principi e un’interpretazione nuova del deposito dottrinale che fosse la base operativa per la ricostruzione che, appena qualche giorno dopo Camaldoli, chiamò tutti all’azione. Come ha scritto Gianfranco Maggi, ciò che Paronetto temeva “e che in tutti gli appunti preparatori si sforzava di mettere in chiaro, era che si interpretasse il progetto lanciato dall’Icas come un tentativo di aggiornamento, di messa a punto della dottrina sociale; questa sarebbe stata, secondo lui, soltanto ‘poesia di vecchio stampo’, mentre pensava si trattasse ora di verificare concretamente quei principi alla luce dei problemi nuovi della società e dell’economia, che in quanto tali richiedevano quindi anche impostazioni di principio parzialmente nuove” (Maggi 1982: 666). Fu la lezione della storia a segnare il cammino, facendo arrivare sino a Camaldoli l’eco delle bombe su Roma.
I partecipanti raggiunsero il cenobio nel pomeriggio di domenica 18 luglio. Franco Feroldi, che in assenza di Vittorino Veronese assunse la carica di segretario del convegno, già in serata propose loro le linee guida del lavoro. Su ciascun tema di studio un teologo avrebbe esposto i punti fermi della dottrina. Quindi un relatore competente avrebbe presentato degli enunciati di sintesi sui principi dottrinali nell’esperienza contemporanea. Alla successiva discussione sarebbe spettato di confrontare in maniera innovativa e interdisciplinare gli uni con gli altri. L’indomani, mentre nell’aula delle accademie cominciavano a circolare le notizie del bombardamento di Roma, Bernareggi chiarì che la riflessione dei giorni successivi si sarebbe compiuta “senza alcuna astrazione dal dramma della Nazione, nella certezza di compiere verso di essa il migliore servizio che a noi è dato” (Bernareggi 1943). Sulla scia della lunga discussione che aveva preparato quell’ora di comune riflessione disse: “Ora il problema sociale ci si para davanti in tutta la sua grandiosità, ed esige una presa di posizione anche da parte cristiana. E ciò, sia come conseguenza della lunga serie di riforme sociali venutesi compiendo in questi anni, e che non possono continuare ad essere ignorate da noi, ma bensì esigono un nostro giudizio sereno; e sia ancora in vista del futuro, del dopoguerra, che non potrà non essere ricco di importanti avvenimenti di natura squisitamente sociale. Il nostro pensiero sociale, rimasto per gran parte fermo ai primi anni di dopo l’altra guerra, ha bisogno pertanto di essere confrontato con le realtà presenti e con le nuove ideologie che si sono venute creando” (ibidem). Camaldoli avrebbe rappresentato alimento per la “fornace nella quale si sta preparando l’ordine nuovo”. Bernareggi auspicò un confronto tra discipline che chiarificasse la dottrina e senza alcuna autoreferenzialità, lavoro pratico, attento alla valutazione dal punto di vista cristiano delle riforme sociali in atto ma con una esclusione esplicita di ogni intento politico. E, ben consapevole delle perplessità che avevano segnato la vigilia di preparazione, concluse: “Una preoccupazione particolare dirò anche aver avuto i promotori della Settimana, quella di promuovere da noi, in Italia, una certa unità del pensiero sociale cristiano. Per questo appunto il ripensamento di questo pensiero si è voluto fosse collettivo. Lungi da noi l’illusione che si possa arrivare anche solo qui a Camaldoli ad una perfetta identità di pensiero. Ma almeno a questo si dovrebbe cercare di arrivare, di avere un unico modo di ‘sentire’ il problema ed i problemi”.
Dopo una lunga elaborazione seguita al convegno del luglio 1943, mese della svolta che porta al crollo del regime fascista] il Codice veniva pubblicato alla vigilia di una nuova svolta, a pochi giorni dalla Liberazione. Un’altra, significativa coincidenza che concludeva la tormentata storia della sua redazione. Il 20 marzo era morto Sergio Paronetto, il coordinatore dell’iniziativa.
Il volume contenente i 99 articoli del Codice uscì dalla tipografia nell’aprile 1945 con il titolo Per la comunità cristiana, che indicava un processo dinamico e aperto a nuovi contributi per la prosecuzione del lavoro in comune. Esso fu offerto agli studiosi e ai lettori come un “primo sommario”, uno “schema di orientamento e di studio” aperto a “osservazioni, rilievi, critiche, proposte”. L’intento di mantenere aperto il dialogo spiega anche la locuzione “a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli” e l’elenco di redattori, revisori e collaboratori incluso in una nota, tanto per un debito di gratitudine verso di loro quanto per responsabilizzarli a ulteriori studi e dibattiti.
È opportuno domandarsi perché un testo volutamente eterogeneo, provvisorio, perfettibile come il Codice di Camaldoli, frutto di una redazione così complessa e non priva di limiti, di obiezioni e di contraddizioni, continui ancora oggi ad affascinare. La lettura del testo e della sua preparazione alla luce della storia offre alcune indicazioni.
Il Codice è stato anzitutto il risultato di una sfida del pensiero che non ha avuto paura della storia. Le enormi difficoltà attraversate dall’Italia e quelle vissute in prima persona dai redattori, lungi dal paralizzare la riflessione o dal motivare nostalgici ritorni al passato, hanno suscitato una risposta creativa e attenta al divenire storico – al ‘durante’, talvolta drammatico, del tempo – e al futuro – al ‘dopo’, che si sarebbe precisato con la nascita dell’Italia democratica e repubblicana.
La redazione del Codice ha posto al centro la competenza, la libertà e la responsabilità di una generazione che seppe fare onore alla propria fede e alla propria intelligenza, non almanaccando su un’identità religiosa da difendere o su un’irrilevanza da commiserare, ma condividendo in un documento aperto a tutti le proprie proposte per una società migliore. Tra la dottrina e la storia, tra l’enunciazione dei principi e la loro applicazione alla vita, piuttosto che indicare un rinunciatario adeguamento alla realtà o un integralistico rinvio al magistero, essa rese possibile una riflessione critica per le coscienze dei teologi, degli intellettuali e dei tecnici, segnata da approcci interdisciplinari e scientificamente rigorosi. E ha così dimostrato che i valori cristiani, siano pure non negoziabili, impastati con la viva materia della storia, possono essere arricchiti e precisati.
Gli studi compiuti negli anni più recenti ci consentono allora di guardare alle vicende, alle idee e alle personalità legate al Codice con meno pregiudizi, con la necessaria distanza e con la dovuta sapienza storiografica. Distanza non comporta un neutrale distacco dagli eventi. Comporta sottrarli dal fuoco della controversia, dalla litania del rimpianto o dalla lusinga di improvvisati revival.
Ritornare, ricominciare, ripartire da Camaldoli senza consapevolezza della storia significa contraddirne lo spirito. Perché se una lezione si può trarre dalla vicenda che ho provato a ricostruire è che in esse i cattolici italiani, come in altre, decisive svolte nella storia del Paese, hanno saputo inventare qualcosa di nuovo e di grande perché hanno avuto il coraggio di guardare avanti, non indietro. Non come epigoni dell’ieri ma come pionieri del domani.
Fu solo la difficoltà del rifornimento della carta a impedire l’inserzione di un foglio bianco a fronte di ogni pagina del Codice di Camaldoli, così da facilitare la stesura di nuove annotazioni e commenti. È sui fogli bianchi che scrive il futuro.
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